Rete Cinema Basilicata: RAI sotto accusa, la lettera di Sibilla Barbieri

La sceneggiatrice richiama alla dignità creativa i soci di 100AUTORI e attacca la linea editoriale della RAI La lettera di Sibilla Barbieri Ho sempre fatto una battaglia solitaria e sicuramente anche troppo ingenua sul fronte del rinnovamento e della “sperimentazione”.
Il primo film che ho scritto per la Rai aveva come protagonista un assassino
che non era stato scoperto e aveva cambiato vita, la domanda era: “punirlo dopo anni, era giustizia o vendetta?”.
Io volevo dibattere un tema etico, il limite della legge. Il soggetto era stato miracolosamente attivato così: avevo scritto all’allora direttore della Rai, lui mi aveva ricevuto, aveva scelto una tra le idee che gli proponevo e mi aveva trovato una produzione. In cambio non mi aveva chiesto nulla. Il produttore che la Rai aveva chiamato a lavorare, mi guardava come fossi la Madonna di Fatima e cercava disperatamente di capire di chi ero l’amante. Ma nonostante questo processo incredibilmente corretto alla fine delle fasi di scrittura (ed avevo bravi editor ) la storia si era ridotta così : il protagonista era diventato la moglie dell’assassino ( perché le donne guardano di più la televisione) e lui non era più un assassino, c’era stato solo un grave malinteso. Perché un vero assassino non poteva essere un protagonista Rai. Questo avveniva nel 2002, quindici anni fa.
Ma perché io desideravo lavorare su un tema etico?
Perché una delle funzioni delle storie, oltre all’intrattenimento e al ribadire l’esistenza di comuni radici e limiti, è l’elaborazione di un nuovo modello sociale ed io a quello volevo partecipare. L’idea di scegliere un cattivo come protagonista era dettata dal desiderio di abbracciare una descrizione della realtà più complessa, noir , una realtà “moderna”. Con la Rai ci ho riprovato due anni dopo ma il compromesso mi ha sempre ucciso. I prodotti che uscivano da queste battaglie erano degli obbrobri, zoppi. Molti autori come me sono caduti sulla stessa strada.
Oggi voi chiedete alla Rai strade di rinnovamento. Ma io non ho capito perché fate questa richiesta. Non ho capito quali sono le reali forze in atto in questa associazione. Nel tempo ho avuto la sensazione che questo iniziale “movimento” diventasse sempre più una specie di lobby, un sindacato che difendeva i diritti di un gruppo. Specifico che io non ho particolare simpatia per le lobby, ma non ho niente contro un gruppo che difende i suoi giusti diritti. Il gruppo in genere cerca di essere il più numeroso e il più prestigioso possibile per far pesare le proprie ragioni. Le battaglie che qui raccoglievano facilmente il consenso di tutti, che non “dividevano”, erano: maggiori diritti e più soldi. E queste infatti sono state fatte. Io ringrazio per le lotte complicatissime che avete fatto anche in mio nome e dei cui risultati io ho usufruito, ma, da quando io ricordo, qui non è stato mai possibile parlare di contenuti, ed è paradossale per un’associazione di autori e cioè di inventori che non venissero ricercate e protette le idee. Quindi mi domando perché state protestando adesso?
State protestando perché per un colpo di mano alcuni membri della dirigenza hanno espresso un parere personale? State protestando perché il nuovo direttore della Rai ha poteri mai avuti prima e dice di volere un rinnovamento e voi, nel tentativo d’intercettare la “richiesta del mercato”, vi state allineando? State protestando perché avete capito che senza un’azione lungimirante il nostro che è un mestiere di frontiera muore?
La terza domanda è per me un’affermazione, ed è la vera e unica ragione per cui io sono qui. L’altro giorno ho sentito un autore dire che non gli piaceva la parola “sperimentazione” preferiva “originalità”. Io uso la parola sperimentazione perché paragono il mestiere dell’autore a quello dello scienziato. Anche noi siamo creatori di modelli, di prototipi, ma a differenza della scienza noi non abbiamo l’onere della prova, il nostro modello può non ripetersi. Eppure, come il modello scientifico, la proiezione che noi facciamo è volta a descrivere la realtà e a muovere la realtà. Nella scienza esistono tre tipi di sperimentazione: libera, universitaria e presso un ente. Noi abbiamo la sperimentazione universitaria? Sì, ma poca. Abbiamo quella presso un ente? Molta. Invece, certamente, la sperimentazione libera ha pochissimi mezzi ed è un vero peccato perché è quella da cui vengono le maggiori sorprese. Comunque tornando alla ragione per cui bisognerebbe fare delle storie che sperimentino. Vi pongo una domanda ingenua, base: perché gli esseri umani producono miliardi di storie, compresi i sogni che facciamo tutti ogni notte? A cosa serve questa continua produzione di racconti? Vi chiedo di tornare a riflettere su questa semplice questione per ricostruire la necessità che ci porta a dover sperimentare. Quando il pubblico si siede davanti ad uno schermo televisivo, in un teatro o in una sala cinematografica e si spegne la luce inizia un antichissimo rito. L’azione non avviene solo sullo schermo o in scena, avviene anche tra il pubblico e lo scorrere del racconto. Il pubblico si dispone in un atteggiamento passivo e aperto s’immedesima nel protagonista, nell’eroe. “L’agente chimico” che opera questa trasfigurazione è la passione. Il pubblico piange, ride, si spaventa, non ha filtri o censure, “è” il protagonista. Non usa la mente per capire, ma vive un’esperienza simile, per potenza, all’esperienza vitale. L’eroe della storia diventa un “campione”. Il pubblico è con lui, è “in lui”. L’eroe scopre il suo nemico, il nemico rappresenta il suo limite e l’eroe si batte per spostare il suo limite. Ma se per caso questo limite coincide anche con un limite sociale, l’eroe vincente, in quella sala buia, mostra la strada per spostare il limite di tutti. Le storie sono proiezioni: sono elaborazioni collettive, volte allo spostamento del limite. Praticamente sono come dei record atletici. Con una storia ben fatta, gli uomini spostano di un millimetro o di un metro la propria comprensione della realtà. Specifico che non è un “evoluzione positiva”, l’elaborazione del modello non ha un valore positivo o negativo è solo un ampliamento della percezione. Comunque la promessa che le storie fanno di trasformazione, è una promessa di movimento, di “Vita”, un gancio talmente eccitante, così attraente per il pubblico, che anche quando le storie non hanno un reale potenziale di trasformazione, tendono ugualmente e furbamente, a promettere una qualche forma di spostamento del limite, cioè promettono “trasgressione”. Queste trasgressioni spesso si riducono solo alla violenza e al sesso maggiormente esibiti. Essendo un’elaborazione collettiva del modello, le storie a volte vengono utilizzate anche con una funzione opposta alla loro dirompente potenzialità di cambiamento. Ci sono storie costruite per rimarcare limiti prestabiliti, come succede nelle favole.
Cappuccetto Rosso non deve mai fermarsi a parlare con il lupo. Tutti i bambini del mondo lo sanno. Ed è un monito che diventa sicuramente più chiaro se si immagina cappuccetto rosso non come una bambina ma come ad una giovanissima adolescente e se si pensa il lupo non come ad un animale, ma come un uomo con un lato molto selvaggio. Queste storie funzionano come le vie dei canti. Sono mappe che segnalano strade chiuse e trabocchetti. Di questa stessa famiglia fanno parte le storie che ribadiscono l’identità di un gruppo e che hanno un potere sociale aggregativo e rassicurante. Infine ci sono le storie che promettono solo intrattenimento, ma anche queste sviluppano tutto il loro potenziale, quando riescono ad agganciare lo spettatore con una forte immedesimazione. Il questo caso lo spettatore, stanco e stressato, riesce a dimenticare tutti i suoi problemi e vive un’esperienza emozionante od allegra, senza essere costretto a confrontarsi con la modificazione di limiti a volte molto impegnativi. Lo spettatore cioè usa in queste storie il rituale di immedesimazione/trasformazione per uscire da sé e per fare una esperienza nuova. La capacità delle storie di penetrare direttamente al livello emozionale, scavalcando le censure della mente, le rende fantastici strumenti di controllo sociale. Le storie contribuiscono a creare l’immaginario e la morale comune. Questo spiega la fortissima battaglia che si sviluppa su un argomento apparentemente così effimero. Riassumendo, le storie possono:

Aprire ed indagare nuove prospettive
Aiutare ad elaborare un modello sociale condiviso
Confermare un’identità
Dettare moniti su ciò che è socialmente pericoloso.
Da anni la RAI si occupa solo degli ultimi due punti. Perché? Perché lo spostamento del limite rappresenta una trasgressione vera e una trasgressione è sempre faticosa dato che cambia l’assetto esistente. Per sostenere il rischio di uno spostamento culturale oltre al coraggio ci vuole il potere e in RAI fin’ora nessuno, neanche i vertici, aveva un vero potere, perché tutti rispondevano ad altra autorità. Vigeva quindi una logica conservativa, una politica del “dare meno fastidio possibile” tutte cose che sono esattamente l’opposto dello scopo più importante della narrazione che è quello di provocare la trasformazione. Diciamo anche che chi decideva non era interessato ad uno degli scopi sostanziali dell’arte. Perché se chi decide vuole il controllo sociale, non può volere il cambiamento. E’ un potere, o se preferite una missione, che contrasta con un’ altra. Ora almeno una società di autori dovrebbe avere chiaro qual è la parte vibrante e fragile di questo mestiere, quella che va sostenuta e protetta ed in cui, probabilmente, bisogna seminare molto per raccogliere poco. Una società di autori dovrebbe avere chiaro che accanto alle storie di intrattenimento ed istituzionali ci deve essere spazio per la ricerca libera, finanziata e riconosciuta dallo Stato come necessaria alla vita del nostro corpo sociale. Sì esistono anche altri canali oltre la Rai, ma i canali ricchi sono quasi tutti “Ricerca presso un ente” in cui il mercato e la moda impongono la linea. Questa è un’associazione di autori, d’inventori, non può chiedere timidamente qual è la linea editoriale a cui adattarsi, non può rincorrere il mercato.
Perché è esattamente l’opposto, gli inventori sono dei visionari, la linea editoriale e il mercato sono alle loro spalle.

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