L’andirivieni di persone vere o
presunte (tanto, cosa cambia) negli scorrevoli racconti che evolvono
come un unicum del vissuto. La famiglia, Napoli come una grande
mamma. “Papà amava la santità ma era ateo fino al midollo spinale, per
lui la vita non era una cosa da uomini, da persone, la vita era una
faccenda da eroi e o si era eroi o non si era.” Una vicenda familiare
narrata non senza malinconia: invece a mascherarla è davvero un senso di
trascorso, forse di tempo perduto (come in Proust); un tempo che respira
ancora nei battiti di un cuore che non si rassegna a parlare al passato.
Eppure i battiti ci sussurrano di presente, e persino di futuro. Si ergono
nel divenire che si fa giorno, si fa commedia, si fa drammaturgia del
nostro contemporaneo, nascosto nei flutti dell’essere uomini. Non c’è
rivelazione ardua, né epifania del Coro: il personaggio di Jeanine - de La
felicità – resta imbrigliata nella scelta tra i sogni d’amore e di carriera e
gli “obblighi” verso la famiglia (già, perché l’autore dà quel finale?) che
sa di Sud, nessuna evoluzione, dunque: ricatto familistico - non già
riscatto - come in una moderna sceneggiata napoletana. Che siano
boulevard o vasci napoletani, l’animo umano rimane sotteso a “doveri”
morali prima ancora che ad ambizioni di futuro. Il filo rosso che Guarino
compone nella narrazione si regge in un sistema di confronti, offrendo
come in un film (perché di sceneggiatura si tratta) quei duttili “momenti
di visione” (espressione cara a Virginia Wolf) e riordinano il vissuto
individuale. Qui nord o sud non c’entrano. “Gli ippodromi sono finiti.
Questo è un lavoro delicato, bisogna farlo bene, seriamente, ma fino a un
certo punto. Poi ci sono i fatti… Insomma, Mazzo’, tu sei un eroe e non c’è
niente di più ingenuo di un eroe”. E un passaggio del racconto “Mazzola”,
la cui genuinità rimanda al Gennareniello, di un giovane Eduardo De
Filippo. Il teatro e il cinema, amori di sempre frequentati da Guarino nella
sua Napoli, ed esposti anche “per gli infelici che non conoscono il
napoletano.” In quelle sale che sono ormai sparite: “a sei anni ho visto
Katango e Zorro contro Maciste, capolavori di ingenuità che mi hanno
introdotto ai misteri della fede…pardon, al cinema.” Nei suoi racconti si
possono scorgere in filigrana immagini evocative, come nel Gruppo di
famiglia in un interno di Luchino Visconti, (La felicità) e intravvedere un
più nitido Kafka (Soffitti). E’, in definitiva, una scrittura appassionata “al
limite del dolore e in altri casi divertenti sul filo della comicità.” Lo enuncia
lo stesso Guarino. Alla presentazione del libro al Circolo della Stampa di
Avellino (cui le immagini), il filosofo Fausto Baldassarre, in una dotta
analisi dei racconti non ha mancato di rimarcare i riferimenti ai maestri
del pensiero, come Hegel e la fenomenologia dello spirito evocato nel
titolo del libro Tutto qui. Ha quindi sottolineato l’importanza per Nicola
Guarino di guardare a ritroso il mondo della sua giovinezza e della
napoletanità in una ottica di maggiore spessore, grazie alla sua
pluridecennale esperienza parigina ed universitaria. In tre parole chiave: il
sentimento, l’immagine e la parola. Al Nicola Guarino in dono il manifesto
del CineClub Vittorio De Sica di Rionero e l’ultimo numero di Cabiria edito
da Cinit.
Armando Lostaglio
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