IN UN CALENDARIO LA STORIA DI MONTICCHIO
Encomiabile iniziativa degli Amici del borgo ai piedi del Vulture
di Leo Vitale
Si cerca ogni mezzo per narrare la storia del proprio luogo natio. Gianni Torregiani l’ha fatto in modo sobrio ed elegante mediante il calendario 2016 che non è da appendere, bensì da leggere e conservare, ammirandone le belle immagini a colori e cercando di carpire il senso dei blasoni di alcune famiglie che hanno amministrato Monticchio. Si traccia in 18 pagine la storia di questo borgo, con un cenno alle vicende e ai personaggi che li hanno visti protagonisti.
In quest’anno sono stati evidenziate le famiglie dei normanni Altavilla, dello svevo Manfredi con lo zio Lancia, della famiglia Carafa della Stadera e dei Borromeo con i loro blasoni in prima pagina. Piuttosto leggibili sono gli stemmi degli Altavilla e dei Lancia; in quello dei Carafa si evidenzia la bilancia di ferro (la stadera) che fuoriesce dallo scudo, in cui è il motto “Hoc fac et vives” (fa’ ciò e vivrai); più articolato e complesso è il blasone dei Borromeo, su cui tuttavia risalta maggiormente la parola “Humilitas”, l’umiltà con cui ci si deve avvicinare a Dio.
Perché ricordare Monticchio? Il curatore intende perseguire due finalità ben precise: far conoscere ai Monticchiani la storia della loro patria e raccogliere dalla vendita dei calendari i fondi da utilizzare per il restauro della locale Chiesa di Santa Maria della Vittoria.
Oggi, quando si dice Monticchio, si pensa ai due laghi del Vulture e alla badia di san Michele.
In realtà nei secoli scorsi esisteva un borgo, i Paduli o Bagni, al centro di tante contrade che confinavano con l’Irpinia e la Puglia e che facevano perno sia verso la badia sia verso il castello, i cui ruderi sono ancora visibili vicino a Monticchio Sgarroni-San Vito, oggetto di conquista per la sua posizione strategica dei vari dominatori che si succedettero nella nostra zona, quali i Longobardi, i Bizantini, i Saraceni, i Normanni. Dalle lotte di conquista dei Longobardi e Bizantini trassero alimento le rivalità tra i due ordini monastici, i basiliani e i benedettini, per la dominazione morale e materiale del Vulture dando origine alla badia di Sant'Angelo in Vulture. Di questa insieme con il borgo e le sue pertinenze erano sicuramente in possesso i Benedettini, quando i Normanni, con la presa di Melfi del 1041, gettarono le basi dell'unificazione del paese e ottennero da papa Niccolò II il ducato di Puglia, Calabria e Sicilia, in cambio del giuramento di fedeltà e della promessa di tutelare i diritti della chiesa. Alla prosperità materiali dei monaci un grave colpo fu portato dal nuovo ordine monastico degli "Umiliati", fondato da Guglielmo da Vercelli, venuto a Melfi alla fine del secolo XI e salito poi in grande fama di santità. Quest’ordine, favorito dai re normanni Ruggero e Guglielmo I e protetto dai papi Adriano IV e Alessandro III, prosperò a spese soprattutto delle vecchie badie, "che più non ebbero né largizioni di nuove terre né copia di ogni ben di Dio e, nelle feste dei Santi titolari, abbondanza di elemosine”. Un secondo colpo non meno grave fu apportato dal re Manfredi. Questi, per l’aiuto ricevuto nella lotta contro Venosa, Melfi, Bari, Trani e altre città pugliesi, e per la distruzione di Rapolla, per compensare la perdita delle rendite feudali, dava Monticchio e le sue pertinenze in feudo allo zio Galvano Lancia, fratello della madre Bianca Lancia. Il castello e la badia furono feudo di Galvano sino alla sua morte nel 1268. L’intenzione di Manfredi nel perseguire la sua politica antiguelfa era di costituire un forte regno italico, indipendente dalla Chiesa, del quale Melfi avrebbe potuto divenire la capitale e la Valle di Vitalba e la Basilicata il centro geografico e politico di esso. Nulla di tutto ciò poté realizzarsi perché a Benevento il
26 febbraio 1266 il re svevo lasciò la vita e due anni dopo anche il nipote Galvano Lancia.
Dalla metà del duecento a quella del trecento con gli Angioini corre il secolo d'oro
della Badia, un periodo di grande prosperità grazie alle numerose rendite. Queste, però, non di rado provocarono liti e contrasti, soprattutto con i signori provenzali, che si ritenevano immuni da ogni obbligo solo perché francesi come il re.
Nonostante la sua prosperità, forse proprio per questa, la badia vide togliersi uno dei diritti più antichi e consacrati dalla regola stessa benedettina, l'elezione dell'abate per voto di tutti i monaci. A causa di contrasti interni vennero eletti due abati che ressero contemporaneamente la badia. A sanare il dissidio, intervenne un editto di papa Giovanni XXII (emanato non specificamente per Monticchio), secondo il quale le "provviste” di tutte le chiese e di tutte le badie sottoposte alla Santa Sede dovevano da allora in poi spettare esclusivamente al papa: non solo, dunque, la conferma, ma anche la nomina dell'abate. E fra i due litiganti, il papa scelse un terzo, suo conterraneo ed amico, don Amelio di Villeneuve, ma i contrasti tra i frati continuarono, causando la decadenza economica, politica e morale della badia. Con gli sperperi degli abati e la pessima amministrazione scemarono le rendite; le guerre di quell'epoca causarono la distruzione delle borgate vassalle ed anche Monticchio fu incendiata e saccheggiata; la stessa badia crollò materialmente per il terremoto del 5 dicembre 1456.
La decadenza non si arrestò neppure quando il papa Pio II decise nel 1460 di affidare l'abbazia a un cardinale raccomandatario, istituendo la commenda, ossia l’affido in godimento di un beneficio ecclesiastico, con il fine non solo di offrire nuove prebende ad un principe della Chiesa, ma anche di mantenere in obbedienza i monaci, educare al rispetto i vassalli e garantire alla Curia apostolica il pagamento del canone annuo, di cui i monaci erano ormai in debito da lungo tempo.
Con tale funzione primo commendatario della badia fu il cardinale Niccolò Teanense. Altri gli succedettero, ma tutti si rassomigliarono nel riscuotere le entrate, di cui non spendevano neppure una piccola parte a vantaggio ed utilità della chiesa e del convento.
I Benedettini a loro volta abbandonarono la badia, cedendo il posto agli Agostiniani e, all'inizio del secolo XVII, ai Cappuccini. La Badia decadde sempre di più. Dei monaci poco o niente si occuparono i cardinali commendatari, i quali, se avevano tutto l'interesse oltreché l'obbligo formale di mantenere sul posto una comunità religiosa, non si curavano minimamente di conoscerla. Ciò non deve meravigliare: l'importante per i cardinali commendatari non erano le sorti del convento loro affidato né la sua influenza religiosa e morale, ma l'appannaggio costituito dalle entrate di esso. Di tale commenda, che era "di molta rendita", dispose per circa ottanta anni, come beneficio di famiglia, la casata dei Carafa della Stadera di Napoli, con il cardinale Oliviero, abate commendatario nel 1500, uomo né cattivo né incolto, ma affetto dal vizio del nepotismo, quello, cioè, di largheggiare in onori e vantaggi temporali verso i congiunti. I nipoti Gian Francesco e Gian Geronimo con il fratello Mario pensarono bene a sperperare le rendite sempre copiose di Monticchio. Morto l'ultimo Carafa, Federico, padre di Gian Geronimo e di Mario, nel beneficio badiale successe il cardinale Marco de Altemps, sostituito ne 1591 dal cugino, il cardinale Federico Borromeo, al quale subentrò nel 1628 l’omonimo cardinale Federico Borromeo, che rimase in carica sino al 1673. Divenne poi commendatario il cardinale Orsini, arcivescovo di Benevento e successivamente un altro beneventano, il cardinale Coscia.
Qui si ferma la narrazione della storia di Monticchio del Torregiani, che rinvia il
seguito del racconto sino alla soppressione degli ordini ecclesiastici, senza dirci quando ciò sarà fatto. È tuttavia meritoria di plauso e di incoraggiamento la sua finalità che va ad utilità dell’intera comunità di Monticchio.
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