📰 Mauro Di Ruvo non è d'accordo con Sgarbi. Quel giglio non è angioino, ma federiciano.
A Melfi il critico d’arte, Mauro Di Ruvo, visita la Chiesa Rupestre di Santa Margherita.
Il critico d’arte scopre l’attributo arabo di Federico II nascosto nel volto della santa di Antiochia
Luogo: Melfi, Chiesa Rupestre Santa Margherita d’Antiochia
Data: 28 settembre 2025
Puntuale come sempre il critico d’arte, lo scorso 28 settembre è arrivato davanti alla chiesa angioina con la fretta di chi sa già cosa gli aspetta.
Aperti i cancelli dal custode, vice Presidente della Pro Loco di Melfi, in compagnia della archeologa Lina Moscaritolo, responsabile da anni del sito archeologico melfitano, Mauro Di Ruvo fa il suo ingresso nella splendida Chiesa Rupestre di Santa Margherita, un tesoro di antica bellezza per Melfi e l’intero Meridione.
Arrivato sull’altare maggiore lo sguardo del cavaliere incrocia quello enigmatico della Santa di Antiochia.
L’occhio del critico è austero ma affascinato dalle “antinomie dello spirito che emana questo viso così stranamente dolce ma bizantino atipico”, dichiara Di Ruvo.
Da adesso per la Santa è nuova storia e sorge una nuova luce sulla sua figura.
“La storia di questo luogo sospeso dalla terrestre mondanità ” – dice il critico – “è densa di stratificazioni geopolitiche ed etnografiche che hanno apportato alla superficie della prima unità stratigrafica, che chiamiamo Ums 0 (unità metrica stratigrafica di grado zero), altre sezioni e aggiunte sia pittoriche che architettoniche, le quali hanno inquinato il livello culturale di base, cioè quello genuino, con rappresentazioni figurative afferenti al contesto arabo-orientalizzante.”
Di Ruvo ha individuato dei punti di snodo tra le varie sovrapposizioni cronologiche delle maestranze che si sono succedute nel tempo per la decorazione parietale della Chiesa, proprio nella prima campata e nella crociera.
“Ci sono delle dissonanze tra le pitture rupestri come un dislivello tra due strade comunque connesse tra loro, e la giuntura è l’evidenza sia della forzatura arcaizzante sia della distanza stilistica tra due culture, quale quella arabo-bizantina e quella romano-giottesca.”
Il segno più evidente di quello che Di Ruvo chiama “sostrato angioino-federiciano” proveniente dall’area napoletana e siciliana, che si scontra “con un insolito trattamento delle vesti e delle linee fisionomiche oculari” sarebbe infatti, oltre al caso della prima testimonianza qui presente dell’incontro dei tre vivi con i tre morti di derivazione miniaturistica gotica (parole di Di Ruvo), il volto della Santa Margherita, l’intestataria della Chiesa.
“Sulla presenza del culto basiliano come tiepido miscelatore di dottrine locali e influenze esterne, che si intreccia con l’esoterismo del culto micaelico, non ci sono dubbi” afferma il critico, “ma credere che i baffi presenti sul volto della santa siano una svista del frescante, che ipotizzo essere di cultura barese per il suo grado di espressionismo tardo-comneno, sarebbe essa stessa un grave svista”.
“Si è creduto per anni infatti che quel segno fosse una caduta di pellicola pittorica o di ossidazione del carbonato usato per la carnagione, ma questa spiegazione non sussiste, altrimenti non si spiegherebbe come mai il segno sottostante, prossimo al mento, designi proprio l’espressione della bocca, e ancora con quello stesso grado cromatico sul brunellone, un colore tra il marrone e il rosso scuro che era descritto già dal trattato di Cennino Cennini riguardo l’arte gotica”
Quei baffi, dice Di Ruvo, sono segno di purezza e nobiltà spirituale per la cultura musulmana, matrice che si spiega anche nella neutralità araldica di quel giglio raffigurato sul borsello di Federico II nella campata di ingresso, e testimoniano per il cavaliere una importante traccia nel territorio appulo-lucano dei popoli musulmani tanto amati da Federico II.
Commenti
Posta un commento