📰 L’eccidio nazifascista del 24 settembre a Rionero nel racconto del fante Paolo Guglielmi


A rileggerlo dopo tanto tempo, porta sempre dei brividi: è il racconto del militare Paolo Guglielmi, che ritornava a piedi da Rimini dopo l’8 settembre del 1943. 
E giunse a Rionero proprio in quel maledetto 24 settembre. 
Un racconto che sarebbe piaciuto portare sullo schermo a Florestano Vancini o a Roberto Rossellini. 
Era l’8 settembre 1943, il giorno dell’armistizio. 
Una grande gioia vibrava fra le truppe, al fronte. 
La guerra, la paura, le sofferenze potevano dirsi, forse, finalmente debellate. 
Ma la gioia, come ogni esperimento, dura poco. 
Una gioia durata lo spazio di un mattino perché, di lì a poco, prendeva corpo lo sbandamento, come di uomini lasciati alla deriva dopo un naufragio. 
 
 
“Io ero a Rimini, quel giorno, (e qui inizia il racconto di un’amara avventura, quella di Paolo, contadino lucano di Sant’Ilario). 
Facevo parte del 26° Reggimento di Artiglieria. 
La stessa notte di quel caldo settembre, partimmo per Pietrocuneo, una vallata non lontana dal mare. 
Fu proprio lì che avvertimmo l’abbandono da parte del Comando, un rompete-le-righe in balia degli eventi. 
Non avevamo tende e solo pochi stracci, abbandonati quindi al nostro destino. 
Ci incamminammo in un “tutti a casa”, saluti e abbracci fra i commilitoni, io ero l’unico della mia regione. 
Per quattro giorni andammo avanti senza cibo e soprattutto senza guida. 
Si rubava uva nelle vigne e si camminava soprattutto di notte. 
Facce disperate ed allegre a un tempo, per la fine di un incubo. 
Come e quando saremmo arrivati alla meta era difficile prevederlo. 
Di sicuro aleggiava un senso fragile di libertà, insperata fino ad allora. 
I miei diciannove anni così pieni di vita, una vita che però poteva infrangersi contro una pallottola da un momento all’altro. 
Tutti a casa! Imperativo generale.” 
Da Rimini fino alla Lucania, un cammino contrassegnato dalla disperata ricerca di cibi, in quel settembre che Paolo ricorda così torrido. 
Dopo giorni di cammino, era giunto a Pescara, e qui trova i primi conterranei. 
Fra di loro anche Giuseppe, diciannove anni, come lui, amico d’infanzia fra i boschi di Sant’Ilario, che il destino di soldati aveva voluto altrove. 
Che gioia rincontrarsi sani e salvi. 
“Con Giuseppe si andava insieme a cercar cibo. Superata Pescara, ancora un giorno di cammino e si era quasi in Puglia. 
Ci imbattemmo in una Compagnia di tedeschi. Erano in ritirata, anch’essi in ritirata. 
Ricordo che era quasi mezzogiorno, il sole picchiava. Fra noi serpeggiava l’idea che fosse finita: “ora ci portano con loro!” Il viaggio a quel punto poteva dirsi concluso, e riprendere a ritroso verso nord. 
Per finire in chissà quale campo di lavoro. Maledizione! 
E invece no! 
Il comandante, meno che quarantenne, ci fermò. 
Noi eravamo una dozzina fra lucani e calabresi, facce impaurite e stanche. 
Stranamente non ci intimò di seguirli, bensì ci chiese dove fossimo diretti. 
E ci indicò pure la strada migliore da battere se si volevano evitare campi minati, in tempi di disfatta. 
Il comandante tedesco era già stato sia a Potenza che ad Avigliano, ove si trovava un accampamento di avvistamento. 
Ci salutammo scambiandoci un frettoloso “buona fortuna” e prendemmo la strada per San Severo. 
Nei pressi della stazione ferroviaria trovammo una tradotta sui binari: era piena di botti di vino. Ci avvicinammo per riempirne una borraccia e togliere quella sete asfissiante. 
Ma un uomo ci vietò di avvicinarci, aveva tutta l’aria di volersene impadronire. 
Al punto che sparò a bruciapelo ad un giovane militare che era già lì. 
Una tragedia un po’ casuale, infame: il giovane era calabrese ed aveva quattro figli, che non avrebbe mai più rivisto: morì sul colpo, per un sorso di vino. 
Ma il folle gesto non restò impunito perché scatenò la reazione dei commilitoni i quali si avventarono con bastoni e pietre su quell’uomo. 
Lo ammazzarono di botte.” 
Le follie di una guerra sono interminabili e soprattutto inaspettate. Scene terribili che Paolo racconta non senza tensione e lacrime. 
Dopo la tragedia della stazione di San Severo a cui loro malgrado avevano assistito inorriditi e raggelati, il gruppo proseguì il cammino alla volta di Foggia. 
Dopo un giorno ed una notte, si intravede in lontananza il Vulture, e finalmente si era a Melfi e quindi a Rionero, cioè quasi a casa: le montagne dell’appennino lucano a portata di mano, all’orizzonte. 
Quella corona di creste montuose ad aspettare. Quel giorno era il 24 settembre. 
La giornata della più immane tragedia che la comunità di Rionero ricordi. 
“Mi soffermai ad osservare di fronte, all’orizzonte, la mia Sant’Ilario, che emozione.” 
Alla periferia di Rionero, vicino ad un muretto, insieme a Giuseppe, decisero di togliersi quegli stracci “civili” di dosso, per arrivare a casa vestiti un po’ più decentemente: avevano conservato apposta i pantaloni militari, addosso avevano solo stracci e nei punti ove più la vergogna non può tollerare. 
In questi movimenti, vennero notati da una anziana, la quale li aiutò a vestirsi in fretta: “Non abbiate vergogna di me, figli miei, anch’io aspetto che ritornino i miei due figli”. 
In fretta, li esortò, perché nelle immediate vicinanze incombeva la presenza del nemico. 
Il fronte era proprio lì, circoscriveva la cittadina ai piedi del Vulture. 
E aveva anche sentito dire che le truppe tedesche stavano compiendo una retata di uomini, da sacrificare per rappresaglia. 
“A quel punto, col sole di mezzogiorno che picchiava, scappammo per le vie strette di Rionero da Piano delle cantine in giù e per pochi minuti d’anticipo non fummo catturati anche noi. 
Li vide scappare vicino alla Taverna degli Archi una vecchina, forse un angelo venuto dal Cielo, che li invitò ad entrare in fretta in casa. 
Ci diede del pane e formaggio, con un sorso di vino. Ci fece nascondere in un nascondino. 
Non so quanto tempo siamo rimasti lì al buio, impauriti e con brividi gelidi che ci attraversavano la schiena. 
Forse tre ore, mentre trapelavano le voci inorridite di un massacro appena consumatosi: sedici giovani erano stati trucidati, innocentemente, lassù al punto più in alto di Rionero che si chiama Calvario. 
Sembrava che ci fosse una calma apparente, forzata, gravosa. 
Con Giuseppe decidemmo di farci coraggio e ripartire alla volta di Sant’Ilario, quando era l’imbrunire, non senza aver ringraziato ancora una volta quella donna (che il Signore l’abbia in gloria!), per il pane e per la vita. 
Battemmo la strada della Torre di Catena, per il Visciolo e più giù si riuscì a veder saltare il ponte dell’acquedotto, in agro di Atella. 
Ultimo attimo di sofferenza, prima di giungere al paese natìo. 
Ero a casa, finalmente, con i miei genitori e la mia sposa. 
Di lì a poco sarebbe nato Giuseppe, come il compagno tornato sano e salvo da una guerra non nostra, dalla fame e dalla paura. 
Eravamo a Sant’Ilario.” 
Il racconto di Paolo, classe 1924, si conclude qui, mentre attorno il sole rende più verde i boschi rigogliosi. 
Il viaggio di emigrazione per Paolo e la sua famiglia riprese alcuni anni dopo: a ritroso, in Germania e in Svizzera e, dopo decenni, il ritorno ad Atella. 
Ora ci guarda da lassù, con il suo sorriso bonario; testimone di un tempo orrendo, che purtroppo in altre terre ancora si ripete.

Armando Lostaglio

Commenti

Post più popolari