Epistolario
fra il grande meridionalista e il giovane ingegnere rionerese
di Michele Traficante
“Chi è il giovane presuntuoso del mio paese
che, laureatosi qui a Napoli, non ha sentito il dovere di venirmi mai a fare
visita?” Così scriveva don Giustino al suo amministratore di Rionero
Gennaro Catenacci dopo aver letto sul giornale locale “Voci lucane” un articolo
dell’ingegnere Giuseppe Catenacci sulle condizioni delle strade campestri della
Regione. Si sa, al Fortunato nulla sfuggiva di quanto si scriveva sulla stampa
locale e certamente rimase ben impressionato dello scritto del giovane
ingegnere suo compaesano. Fu così che, sollecitato dall’amministratore di Casa
Fortunato, Giuseppe Catenacci si recò per la prima volta a far visita al famoso
parlamentare rionerese nella sua casa di via Vittoria Colonna in Napoli.
Quante volte il Catenacci ci ha raccontato questo
primo incontro. L’emozione e il timore provati furono pari allo sconfinato
affetto e devozione che ne seguirono e che non scemarono mai nel corso dei
lunghi anni della sua vita.
Da ragazzo il Catenacci aveva visto tante volte don
Giustino circondato dalla riverenza dei rioneresi ogni volta che, arrivando a
Rionero da Napoli, dalla stazione ferroviaria si dirigeva verso la sua casa
posta nella piazza che attualmente porta il suo nome. La gente, ci raccontava
l’ingegner Catenacci, faceva ala al suo passaggio togliendosi il cappello in
segno di rispetto e di saluto. Nello studio napoletano del senatore Fortunato,
ove si recava poi spesso, Catenacci ebbe modo d’incontrare e conoscere gli
uomini più illustri della cultura italiana, frequentatori abituali di quella
casa. Ci raccontò ancora il Catenacci che un giorno si trovò di fronte
nientemeno che Benedetto Croce e che il Fortunato, chiamatolo da parte, gli
sussurrò in un orecchio: Sai in quella
testa è racchiuso tutto il sapere umano.
Grande, profonda traccia lasciò nell’animo e nella
mente del Catenacci la conoscenza di quei grandi della cultura, tanto da spingerlo
a studi sempre più poderosi sulla storia del Mezzogiorno. Il Fortunato gli fu
sempre di grande stimolo, di preziosi suggerimenti e di aiuto, forgiandolo nel
carattere, nel rigore intransigente della moralità ma soprattutto nell’amore
sconfinato per la sua terra natia insieme al bisogno di percorrerla passo passo
per conoscerne i mali ma anche la bellezza spesso selvaggia che tanto incanta i
cuori semplici.
Si avviò così una “affettuosa” e sotto certi aspetti,
“ confidenziale” corrispondenza epistolare fra il grande vecchio e il giovane ingegnere rionerese. Epistolario
pubblicato nel 1987 col titolo” Lettere
di Giustino Fortunato a Giuseppe Catenacci” a cura di padre Carlo
Palestina, con prefazione di Giampaolo D’Andrea, da cui si evince come il
Fortunato considerasse Giuseppe Catenacci “interlocutore intelligente e vivace,
ma soprattutto stimolante, capace di scuoterlo in qualche modo da quella
pessimistica rassegnazione sempre più caratterizzava l’ultima fase della sua
vita”. Ma ne ricavava anche indubbio conforto.
In una lettera del 22 agosto 1923 Giustino Fortunato, fra l’altro,
scrive a Catenacci: La tua conoscenza mi
ha ridato, tu credimi, un soffio di giovinezza, ed io te ne sono grato. Possa a
te sorridere, come meriti, l’avvenire. Questo il sincero mio augurio.
La stima di cui il Fortunato faceva oggetto il giovane
ingegnere rionerese spinse quest’ultimo, nel 1926, a chiedere al “grande
vecchio” di fare da testimone al
suo matrimonio con la leggiadra signorina Maria Rubino
di Ripacandida, già direttrice didattica del Circolo di Rionero. Don Giustino
si senti onorato ed entusiasta accettò con grande piacere. Non venendo di
persona alla cerimonia nuziale, per aver deciso di non mettere più piede a
Rionero dopo il vile attentato di cui fu vittima nella serata del 2 agosto 1917, data
che lo stesso don Giustino riferì a Benedetto Croce in una lettera del 30
agosto 1917, il Fortunato si fece rappresentare dal suo amministratore Gennaro
Catenacci e donò agli sposi un anello favoloso che, ci diceva l’ingegner
Catenacci, era il regalo più bello e che teneva più caro.
In seguito il Fortunato affidò all’ingegnere Catenacci
l’incarico di progettare e dirigere i lavori di riparazione della sua casa
avita in Rionero gravemente danneggiata dal terremoto del 23 luglio 1930.
Giustino Fortunato si spense in Napoli il 23 luglio
1932 e il Catenacci, trovandosi lontano per ragioni di lavoro, non potette
partecipare ai funerali, ma l’anno dopo pubblicava il volume Giustino Fortunato e il Mezzogiorno d’Italia
nel quale esprimeva il suo profondo affetto per l’Apostolo del Mezzogiorno.
Quando anni dopo, sul finire degli anni ’60 del secolo
scorso, alcuni studiosi meridionali, fra cui Tommaso Pedio, misero in dubbio
l’onestà del Fortunato, il suo disinteresse nell’operato parlamentare e verso
alcuni provvedimenti richiesti (vedi le Ferrovie Ofantine), il Catenacci, con
l’irruenza che gli era propria, insorse con decisione contestando tali giudizi
e valutazioni nei confronti del grande meridionalista. Pubblicò allora il volumetto
Il mito di Giustino Fortunato in cui
difese con grande passione le altissime virtù morali e il grande impegno del
Fortunato per la rinascita delle neglette regioni del Mezzogiorno d’Italia.
Così Giuseppe Catenacci scriveva del Fortunato nella
premessa del citato volume: Egli era di
quei mortali che l’Eterno dovrebbe perennemente tenere in vita, come lampade
dell’umanità, cui bisogna mirare per salvarsi, in particolar modo nei momenti
in cui i destini dei popoli sembrano maggiormente compromessi.
Mai come oggi, a nostro parere, tale giudizio appare
di grande attualità.
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